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Il primo "Luogo Sacro"
Non siamo in possesso, a tutt’oggi, di documenti che ci consentano di risalire, con chiara attendibilità storica, alle origini del “Luogo sacro”, ispiratore dell’attuale santuario della Madonna della Consolazione. Secondo alcuni cronisti pare che il primo segno sacro strutturale s’identificasse in una “Cappelluccia” o “piccola cappella”; secondo altri in un “piccolo oratorio”, secondo altri ancora in una semplice “edicola”, custodente la sacra Immagine. Accanto a questo piccolo segno sacro pare sorgessero alcune scarne cellette, che in tempo assai remoto avrebbero accolto coloro che si occupavano della sua custodia, e cioè: chierici selvaggi, eremiti o terziari. L’uno e le altre venivano esaltati da una suggestiva cornice disegnata dal terreno ospitante, a gradazione collinare, la cui bellezza, incontaminata, l’annoverava, a pieno titolo, nelle “mirabilia Dei”.

I primi frati cappuccini
E’ stato mons. Gerolamo Centelles, nuovo arcivescovo della diocesi di Reggio Calabria, ad invitare nel 1532, “poichè il buon clero era a quei giorni scarso di fronte ai bisogni del popolo” (Vitriolo), i frati del Poverello d’Assisi, che da qualche anno vivevano nell’eremo di Sant’Angelo di Valletuccio in austere capanne di canne e argilla, secondo lo stile della nascente riforma cappuccina. La fraternità di Sant’Angelo di Valletuccio era costituita da dodici frati - detti colletti - di cui sette sacerdoti (i reggini Ludovico Comi, Bernardino Molizzi, Francesco detto il Palemone, e Ludovichello, Giovan Romeo da Terranova, Francesco da Dipignano, Michele da Castrovillari e Francesco da San Martino) e cinque conversi (Angelo da Calanna e, i reggini, Matteo Sacco, Giovanni Candela, Antonino Tripodi e Bonaventura). Tra essi si evidenziavano i padri Ludovico Comi e Bernardino Molizzi, animatori della riforma, e Antonino Tripodi a cui, come vedremo più avanti, apparve la Madonna della Consolazione.
Visionato il luogo e vedendo che esso ben si armonizzava con i dettami della regola, i frati piantarono le loro tende nel 1533 presso l’Eremo, proprio nel territorio in cui sorgeva la Cappelluccia di nostra Signora del Consuolo, offerto da Giovan Bernardo Mileto. Scriveva a proposito il De Lorenzo: “Ritirato era il luogo, ben acconcio alla vita ascetica de’ cenobiti; opportunissima l’acqua che gemeva freschissima e cristallina di sotto i crepacci della rupe; l’eminenza stessa di questo sito preparava ai solitari un gran ristoro con l’aspetto della campagna reggina, delle acque dello Stretto e il panorama della Sicilia”.
Appena giunti, i frati fecero della Cappelluccia il cuore della loro devozione, erigendovi all’intorno, per loro abitazione, in omaggio allo spirito della povertà e della penitenza, piccole capanne con vimini e fango. Il loro stile di vita, fecondato dalla preghiera e dal silenzio contemplativo, e improntato all’onesto lavoro con le proprie mani, alla questua di “poco pane e poche erbe”, da condividere con i poveri più poveri, che quotidianamente bussavano alla porta del loro cuore, ha suscitato la simpatia e l’ammirazione della gente. Simpatia e ammirazione che si sono commutate in manifesta edificazione man mano vedeva, con i proprio occhi, i prodigi che il Signore operava nella loro vita ministeriale e diaconale. E quel luogo così solitario e solo occasionalmente frequentato da poche persone, è diventato in breve un’oasi assai ricercata dalla gente, desiderosa di una parola buona o di un pezzo di pane, o, semplicemente, di pregare con i frati, che non perdevano occasione di esortare alla pace e al bene, affidandosi totalmente alla materna premura della Madonna del Consuolo, raffigurata nel piccolo quadro.
Monsignor Centelles, vedendo che l’afflusso del popolo all’eremo e le domande dei giovani di intraprendere la vita religiosa cappuccina ponevano in seria difficoltà i frati per l’accoglienza in luoghi così angusti, si fece promotore per costruire una nuova chiesa ed un convento più ampio. «Nell’impianto ed allargamento del convento, si vide a fatti la grande generosità dei Reggini, e il sommo amore che chiudevano in petto verso i poveri figliuoli di S. Francesco. L’Arcivescovo e la nobiltà accorse con larghe elemosine, e gli artisti e manovali vi prestarono gratuita l’opera loro» (P. Arcangelo Calì). E più ancora, in pochi anni, una nuova e più spaziosa chiesa signoreggiava sulla collina dell’Eremo, mentre il terreno attorno al nuovo convento allargava, nel tempo, i suoi confini, grazie alle donazioni, rispettivamente, di Giovanni Domenico Cumbo, Francesco Mantica e Paolo Cumbo. 

Il nuovo quadro della Madonna della Consolazione
Costruita la nuova chiesa, con «al suo fianco un convento dalle cellette strette, da corridoi angusti e dalle finestrine piccole; tutto secondo la rigida austerità cappuccina» (P. Giambattista Familiari), è stato collocato l’antico piccolo quadro sull’altare maggiore e, per circa quindici anni, i frati e il popolo hanno continuato a volgervi «gl’inchini e le preghiere» (Vitriolo).
Il nuovo tempio sacro sembrava ridimensionare, di molto, la visuale, già piccola, del venerato quadro, per cui il nobile Camillo Diano ha pensato di commissionare al pittore Niccolò Andrea Capriolo un nuovo quadro, “non solo di maggior grandezza e valore, ma che portasse ancora delle secondarie rappresentazioni allusive ai novelli ospiti del solitario luogo” (Mons. De Lorenzo).
Le “secondarie rappresentazioni” sono da riferirsi a san Francesco d’Assisi (che riprodurrebbe le sembianze del Diano) e a Sant’Antonio di Padova (che riprodurrebbe le sembianze del Mileto).
Il dipinto è stato realizzato su tela, sistemata su un piano ligneo, formato da quattro tavole di noce, raccordate con tre liste spesse e telate, dello stesso tessuto, e corrisponde, pur con proporzioni notevolmente maggiorate, al quadro che si venera attualmente nella Basilica dell’Eremo, affidata alla custodia dei cappuccini. Vi si raffigura, infatti, la Vergine Maria «assisa in trono semplicissimo, sotto il cui sgabello sta segnato l’anno 1547. Essa sostiene nelle braccia il divino Infante, e da ambedue le immagini spira il più soave ed ingenuo affetto. Nel destro lato è S. Francesco di Assisi, dipinto com’è d’uso con le sacre stimmate, e recante nelle mani il libro aperto della regola, e come archimandrita una modestissima croce di legno. D’altro fianco è la giovine figura del taumaturgo da Padova, rappresentato con l’emblematico giglio dell’innocenza e il libro della scienza teologica. Nel di sopra due angioli librati in aria sostengono con le destre la corona sul capo della Vergine, recandosi ciascuno nell’altra mano una palma» (Mons. De Lorenzo).
Il nuovo quadro è stato benedetto il giorno dell’Epifania del 1548, nella Chiesa del Duomo, dall’Arcivescovo Mons. D’Agostino dei Duchi Gonzaga di Mantova, alla presenza degli Abati di S. M. della Gloria di Mileto, dei prelati e di una moltitudine di popolo, e accompagnato processionalmente, nel tardo pomeriggio, alla Chiesa dell’Eremo.
Il primitivo quadro, secondo fonti comuni, fu ritirato dal Diano «e portato nel maniero di Giunghi, e in apposita cappella adorato, fintanto che i congiunti Parisio non lo ebbero, per portarlo a Malta, collocandolo nel loro palazzo della Valletta» (Parisio).
Sulla sua origine e sulla sua destinazione, invece, non si possiedono informazioni esatte. Alcune fonti ipotizzano che a portarlo nella città della fata morgana, tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500, sia stata una famiglia genovese, ivi trasferitasi, mentre il Parisio « afferma che il Quadretto fu portato dalla Tebaide-Pathirion, tramite il famoso Elia lo Speleota, e che era in potere dei nobili Pietro Laboccetta e Leonzola Leontini, quando sorse la prima cappella eremitica».
Quanto alla sua destinazione, si fanno diverse ipotesi, tra le quali primeggia quella secondo la quale si sarebbero perdute le tracce del piccolo quadro nel 1798, allorquando «sbarcato a Malta Napoleone Bonaparte, chiese ospitalità ai Parisio, suoi avversari, ed avendola ottenuta, stette nel Palazzo col suo seguito; proprio allora scomparve il Quadretto tanto prezioso» (Parisio).

Le prime consolazioni della Vergine Maria
Il rito della consacrazione della nuova chiesa è stato celebrato da mons. Gaspare del Fosso, Arcivescovo della diocesi reggina, il 18 aprile del 1569, tra un’imponente cornice di devoti e pellegrini. Oltre al Capitolo della Cattedrale, al Clero, ai Religiosi e alle diverse Associazioni cattoliche, erano presenti, per la prima volta e in veste ufficiale, le autorità militari e i governanti della civica amministrazione. D’altronde, come già si è accennato, «al vedere nei cappuccini l’austerità della vita accoppiata all’ardente zelo per la salvezza delle anime; all’udire la loro parola, pacifica, estranea alla politica locale, disinteressata ed insieme coraggiosa; all’osservare la miseria che accattava il pane colla bisaccia, e lo spirito di preghiera, che nel centro della mezzanotte salmeggiava a Dio, e quindi di giorno insegnavano ai terrazzani la legge del Signore, ed, apostoli di pace, scendevano fra le ire ultrici delle discordie familiari, e nei momenti di riposo oravano, o vangavano la terra: breve, al vedere nei poveri figli di S. Francesco tanti argomenti di virtù, il popolo delle Calabrie vi si affezionò per forma, che si moveva anche da lontani paesi, ed a piedi andava sul monte per vedere, ammirare e provvedere del necessario alimento quella comunità di santi penitenti» (P. Arcangelo Calì). I frati, ovviamente, non perdevano occasione per evangelizzare i cuori, con le parole e con l’esempio, alla fervente devozione verso la Madre della Consolazione, impetrando la sua potente e provvidenziale intercessione presso Dio. E le grazie non tardarono a scendere copiose sulla vita delle singole persone, delle famiglie e dell’intera cittadinanza.
Nel 1576, infatti, dalla vicina città di Messina, passava nella nostra città il morbo della peste, provocando più di 700 morti e gettando nella tristezza e nella desolazione le famiglie. «Ogni casa – scrive il Vitriolo - cominciò a dar le sue vittime, e prestare alla morte il pallido suo tributo. Ovunque vedeansi infermi senza speranza, e moribondi senza conforto. Il funereo carro girava per le strade, ed ardevano le pire degli ammonticchiati cadaveri. Alla calamità del cielo aggiugneasi quella dei tristi e malvagi uomini. Il sanguinario Nino Martino scorrea a man franca co’ suoi scherani le ubertosi campagne, ed impediva, che i ricchi potessero colle famiglie trasportarsi alle ville, e respirare, lungi dal miasma, aere più salubre e tranquillo. L’aere dianzi profumato de la bella città, che olezzava de’ fiori dei cedri e degli aranci, allora non dava che il puzzo dei corpi morti. Cresceva inoltre la scarsezza delle vettovaglie, perché chiuso il mare, chiusi i campi d’intorno.
In quelle angustie si raccozzò alla meglio un lazzaretto sull’aprica collinetta del Salvatore, rimedio al comune, strazio alle isolate famiglie, recinto di morte dei singoli».
«Al manifestarsi della pestilenza – ci racconta il Calì - i Cappuccini della Consolazione offrirono spontaneamente la loro vita in servigio dei poveri appestati, e tre di loro andarono a chiudersi nel lazzaretto. In questo recinto di morte, i religiosi si mostrarono a tutti angioli di pace e consolazione, diffondendo, diffondendo ai miseri il balsamo della speranza, e facendo pregustare a tutti le dolcezze ineffabili del Cristianesimo».
Affrettandosi dove maggiore era il pericolo e più imminente la morte, morirono l’uno dopo l’altro martiri «di fratellevole carità» (Vitriolo). «Cadde per primo P. Girolamo da San Giorgio, uomo di santa vita, e il suo dipartirsi fu pianto universale del lazzaretto. Lo seguì P. Girolamo da Montesoro, che mai aprì bocca in tutto il tempo di sua vita, tranne per difendere la gloria di Dio e procurare la salvezza delle anime. Genuflesso avanti un Crocifisso, spirò finalmente F. Giacomo Foti da Reggio. E i loro cadaveri vennero sepolti accanto alla chiesa del Salvatore, che sorgeva nel luogo ov’erano raccolti gli appestati» (P. Arcangelo Calì).
«Su, all’Eremo, intanto, i Cappuccini pregavano caldamente innanzi all’Immagine della Vergine, perché impetrasse da Dio la grazia della guarigione per tutti gli appestati e, così, la città di Reggio e ogni altra città colpita dal morbo mortale tornassero, nuovamente, alla vita normale.
Tra di essi, v’era pure fra Antonino Tripodi, il quale aveva più volte avanzata la richiesta al padre Superiore perchè mandasse anche lui nel lazzaretto a confortare i malati, ma senza esito favorevole. Per cui, ritirandosi in chiesa, notte e giorno con insistenza accorata rivolgeva fervorose preghiere alla Madonna della Consolazione in favore della sua città; e più trascorreva il tempo, più il suo animo si rattristava, fino a piangere a dirotto, perchè i suoi voti e le sue preghiere non venivano esauditi. Ma una notte, mentre pregava, gli è apparsa, «cinta di superna luce», l’amabilissima Vergine, assicurandolo che le sue preghiere erano state ascoltate e che la città di Reggio sarebbe stata liberata dalla peste. Quindi lo incarica di recarsi in città per dire «ai reggini, che qui vengano a render grazie all’Altissimo dello impartito favore» (Vitriolo). Fra Antonino non aveva assaporato appieno la gioia del celestiale stupore che un imbarazzante turbamento gli pervase l’anima perchè si riteneva indegno di essere il messaggero della Madre di Dio. «Signora – le disse – eterne grazie siano rese alla vostra bontà, ma altri di me più degno scegliete, perchè l’opera compia dei vostri santi voleri». La Vergine fece cenno di esaudirlo e la visione scomparve.
La sera del giorno seguente, si recarono dal Governatore della città, Alonzo Sanoguera, due incogniti religiosi, forse S. Francesco e S. Antonio da Padova, dicendogli: «Signore, messaggeri siamo di lieto annunzio. Domani la città sarà fatta libera dalla peste; la grazia viene ai reggini dalla madre de le consolazioni: ordinate d’accordo colla chiesastica autorità solenne processione infino alla chiesa di nostra Donna» (Vitriolo). Quella sera stessa il Governatore andò a trovare il Vicario Generale, essendo assente l’Arcivescovo, narrandogli l’accaduto e sollecitandolo a disporre la cerimonia. Ma il Vicario manifestò subito perplessità, pensando alla catastrofe che si sarebbe abbattuta sulla popolazione, qualora non fosse vero il prodigioso intervento soprannaturale. Onde meglio sincerarsi, propose di coinvolgere i tre sindaci e, insieme, andare dal Superiore del convento per avere precisi ragguagli in merito, ingiungendo il massimo segreto. Al mattino, di buona ora, i cinque bussarono alla porta del convento e furono accolti dal guardiano, padre Bernardino Giunta, reggino di nascita, il quale, sorpreso del racconto e immaginato chi avrebbe potuto chiarirgli le cose, chiamò, in disparte, fra Antonino Tripodi e si fece manifestare, sotto precetto obbedienziale, «la gioconda visione, e le dolci promesse della Madre di Dio. Saltò d’allegrezza il guardiano, ed ito frettolosamente al luogo di prima: va bene, gridò, le cose, e più dir volea, quando un confuso frastuono si udì di gemiti e di grida. Erano grandi e volgo, madri e figlie da le trecce scarmigliate, sacerdoti, laici, gente d’ogni sesso, d’ogni ceto, d’ogni età. Era il popolo reggino, che senza d’essersi nulla per le autorità divulgato, mosso da interno impulso, uscì da le case, infranse gli statuti sanitari, e quasi ondoso torrente mosso a la chiesa della Consolatrice celeste, pietà gran Dio, gridando, pietà di noi. Si spalancano allora le porte del tempio, s’accendono numerosi doppieri, i magnati gravansi del nobil peso de la sacra effigie, intonasi l’inno ambrosiano, e fra i cantici si trasporta l’imagin santa nella contristata città. Che mai ne avvenne! Che? La pestilenza in punto finì. Fu il lazzaretto disfatto, ne uscirono gl’infermi in mezzo ai sani, gl’infetti mobili non si arsero, i sani non infermarono, gli infermi sanarono, la pestilenza in punto fini! Era un tempio sacro alla Vergine la cittade intera, ed era altare ogni cuore» (Vitriolo).
Dagli atti notarili e dai processi verbali postumi, si evince la notizia che la città di Reggio, «resa libera dal terribile contagioso morbo ed in memoria della segnalata grazia ricevuta i cittadini istituirono solenne festa in detto giorno di ogni anno, con offrire un Cereo in rendimento di grazie» (Processi verbali). A proposito scrive il P. Fiore: «Istituirono i Reggini solenne festa nel dì 21 Novembre, la quale sieguono a celebrare nella chiesa stessa de’ Cappuccini, con molta devozione e concorso di popolo che viene dalla Città e suoi villaggi per venerare e rendere grazie alla lor protettrice Maria, tutti confessandosi e comunicandosi in quel giorno».

Le incursioni dei turchi
A turbare il sorriso della serenità sul volto dei reggini, da poco liberati dal flagello della peste, fu la vista di un’armata ottomana, capeggiata dal messinese Scipione Cicala, figlio di Visconte e Lucrezia Cicala, attraccare con cento galee “nella baja, che chiamano Fossa di S. Giovanni” (Vitriolo), nei pressi dell’attuale spiaggia di Pellaro, e da qui muovere verso la città.
Il grado di grande ammiraglio il Cicala, conosciuto tra i musulmani con il nome di Hassan e Sinam Bassà, se l’era guadagnato grazie alle doti di coraggio e allo spirito avventuriero dimostrati nelle strategie belliche. Era riuscito ad accattivarsi tale simpatia agli occhi di Solimeo da ottenere in sposa la stessa figlia.
Secondo qualche storico, pare che la conversione del Cicala alla religione musulmana non era stata assoluta e che, quindi i sentimenti della fede cattolica non li aveva mai abbandonati. Lo attestava il singolare “legame” con un’immagine di Gesù, che custodiva, gelosamente e in forma riservatissima, nel proprio habitat.
Alla vista dei turchi – era il 2 settembre 1595 – i reggini, in preda alla paura, ripararono sui monti, portando con sé “gli oggetti preziosi ed il meglio delle cose loro” (Vitriolo). “Sostando trafelati sulle alture, videro il fumo sollevarsi vorticoso da cento punti della città incendiata, e luccicare ai raggi del sole le armi dei musulmani” (De Lorenzo).
Intravisto le truppe musulmane, dal rione Condera, il Santuario della Madonna della Consolazione, vi si diressero col proposito di devastarlo e di bruciarlo. Ma ad attenderli erano i cappuccini, che “non seppero staccarsene, e venti reggini provvisti di buone armi, mossi da spezial divozione alla Vergine” (De Lorenzo). Con l’aiuto di altri cappuccini, che intanto si erano portati per dar man forte ai confratelli, respinsero il primo tentativo dissacratore.
All’alba del giorno seguente, i musulmani tornarono più numerosi e meglio organizzati, sicuri di portare facilmente la loro missione a termine. Ma anche i nostri si erano, nel frattempo, riorganizzati, ponendosi nei punti più strategici, mentre i frati anziani non cessavano di implorare, tra lacrime e flagellazioni, l’aiuto della “Virgo potens”.
La battaglia, nonostante le gravi perdite inflitte ai nemici, non faceva presagire niente di buono, al punto che il Guardiano, padre Gabriele Castrisciano, uscì allo scoperto e noncurante per la sua vita, incoraggiava, col crocifisso in mano, i nostri. Vedutolo, i turchi cercarono di ucciderlo, ma una mano invisibile parve deviare i colpi.
Il combattimento si fece, allora, più furioso ed i turchi giunsero alla porta del Santuario, dandole “colle scimitarre spessi tagli” (Vitriolo). E mentre stava per cedere, la preghiera dei frati anziani si faceva più concitata, davanti alla sacra Immagine, fino a configurarsi in espressioni di alte grida, gettando nel panico gli assalitori, i quali si davano a fuga precipitosa, lasciando sul terreno, tra morti e feriti, più di duecento loro compagni.
Fu a questo punto che il padre Gabriele, temendo catastrofico un ulteriore attacco da parte musulmana e ritenendo non saggio tentare Dio, decise di nascondere, nell’anfratto di un muro, vicino alla Chiesa, il Quadro della Madonna della Consolazione e gli arredi sacri, e di riparare, nottetempo, sulle montagne, assieme ai confratelli ed ai reggini, che ne avevano condiviso la nobile impresa.
Giuntovi nuovamente sul luogo, ormai libero da ogni resistenza, i turchi lo frugarono in ogni angolo e, non trovando nulla di loro interesse, “posero in più parti il fuoco e partirono. Ritornati i nostri, trovarono, cosa insolita pel fanatismo musulmano, non profanata la chiesa, e il convento illeso ancor esso, giacché il fuoco si era subito estinto da sé, e solo un poco di falò avealo fornito una catasta di legna che v’era nel cortile” (De Lorenzo).
La notizia raggiunse, fulminea, nei luoghi ove si erano rifugiati i reggini. I quali, vedendo in questi tristi eventi la mano protettrice della Vergine, si sentirono come rinvigoriti nell’anima e nel corpo. E senza indugio, scesero in città, dando «addosso a quanti turchi trovavano pei luoghi suburbani. Visto che facean buona prova, si accozzarono in duecento pedoni ed un manipolo di cavalieri, e si diedere a bezzicare il nemico fin sotto le mura della città, ed indi a poco, rafforzati dalla gioventù di Sambatello, che giungeva guidata dal prete Maio, il cui nome rimase celebre per questa impresa, una sanguinosa caccia concertarono da tutt’i lati de’ sobborgni» (De Lorenzo).
Ai turchi, che avevano lasciato sul campo da tre a quattrocento morti, non rimase, allora, che salire sulle galee, cercando tregua sulle rive di Messina. Ma anche qui essi vennero, subitamente, ricacciati al largo.
Nel 1598, all’orizzonte riappare la flotta del Cicala, in direzione di Capo Spartivento per ormeggiare nella baia di S. Giovanni. Il popolo, che intanto aveva ultimato il riassetto delle loro abitazioni e delle vie di comunicazione e il recupero del Duomo e degli altri Luoghi sacri profanati, fu preso da comprensibile timore e convenne, in massa, all’Eremo per chiedere alla Vergine il suo prodigioso intervento.
La fraternità cappuccina, sull’esempio del suo padre fondatore, San Francesco d’Assisi, pensò, nelle persone del suo Guardiano, padre Angelo da Palizzi, e del converso reggino fra Bonaventura, di farsi messaggera di Cristo presso il comandante della flotta musulmana.
Chiesta ed ottenuta la benedizione dell’Arcivescovo Mons. Annibale d’Affitto, si presentarono alla presenza di Simon Bassà, con in mano un ramoscello d’ulivo, segno di pace.
Il messaggio evangelico, formulato con ispirata semplicità francescana da padre Angelo, sembrò intenerire il cuore del Bassà, suscitando ammirazione anche nei suoi ufficiali, al punto da far credere che la missione avrebbe sortito l’effetto sperato. Ma il timore che il suo comportamento potesse insinuare sospetti nei suoi ufficiali, interruppe bruscamente il padre Angelo e, nel congedarli, gli fece dono di un salvacondotto e di una freccia, recanti il logo del suo sigillo, per tornare indisturbati al convento e per annunciare, qualora lo desiderassero, il Vangelo anche nelle terre musulmane.
Intanto, dalla vicina Messina, giungeva la mamma, la quale, facendo ricorso a tutto il suo amore materno, gli manifestò la sua viscerale delusione per la sua apostasia, esortandolo a riabbracciare la fede cattolica e scongiurandolo di far ritorno alla patria adottiva. Cosa che fece.
Ma la tregua durò poco. Infatti, il 2 settembre del 1602, veleggiò con 45 galee, equipaggiate di tutto punto, alla volta della Calabria, gettando l’ancora nella rada di San Giovanni, con il preciso intento di assoggettare definitivamente al dominio turco la città dello Stretto. La reazione dei reggini, tonificati dalla certezza della protezione della Madonna della Consolazione, a cui si erano rivolti con accorate suppliche, non si fece attendere e lo ricacciò indietro.
Allora pensò di ricorrere all’inganno, assoldando un soldato del presidio cittadino, concordando di far saltare la polveriera.
L’operazione doveva avvenire di sabato, giorno dedicato alla Vergine, che la città soleva festeggiare con particolare devozione, portandosi al Santuario.
All’ora convenuta, il mercenario accese la miccia e guadagnò precipitosamente il lido per essere imbarcato su battello nemico.
Scoperta e neutralizzata la miccia, il custode della polveriera diede l’allarme e, poco dopo, il traditore venne raggiunto e catturato da una pattuglia di cavalieri, nonostante il tentativo disperato di mettersi in salvo, gettandosi in mare.
Confessato il tradimento, “gustò a lenti sorsi le amarezze della morte, essendo stato dai soldati colle baionette ucciso. Quindi appeso capovolto ad un palo con infamante cartello, fu subito messo a vista delle galere nemiche” (Vitriolo).
Indignato, il Bassà arringò circa tremila barbari contro i reggini, ingiungendo loro di mettere a ferro e fuoco la città.
E mentre trecento valorosi uomini, capitanati da Rutinello, si preparavano, lungo gli argini del torrente di Sant’agata, a far fronte ai turchi, le donne si recavano processionalmente, a piedi scalzi, alla chiesa dell’Eremo per invocare il patrocinio della Madonna della Consolazione.
La guerriglia fu lunga ed estenuante, ed i nostri furono costretti a ripiegare, inseguiti dal nemico, fino alla chiesa di Santa Maria Odigitria, detta dell’Itria. Qui Vincenzo Geria, che si trovava nelle retrovie, cercò con tutte le forze di contrastarne il passo agli inseguitori. “Ma sopraffatto dal numero e dalle ferite, era per cadere, ed aver tronca la testa dalle scimitarre dei barbari; se non che occorso il fratello con altri valorosi, e trattolo dal pericolo lo s’indossò, su le spalle insino alla città, ove spirò tra le braccia de’ suoi ed i plausi dei cittadini” (Vitriolo).
Gli aggressori, temendo che tra le viuzze strette e tortuose si celasse il presidio dei Reggini, tornarono alla base, senza aver risparmiato dalla profanazione la chiesa anzidetta.
Umiliato e infuriato per l’ennesimo insuccesso, il Bassà, il quale decise di far ritorno alle patrie terre. E mentre l’armata turca svaniva all’orizzonte, dal cuore esultante dei reggini s’elevava, commosso, un canto di ringraziamento alla sua Protettrice.

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