Notizie storiche 2/3
Notizie storiche 2/3

La “prima entrata della sacra Immagine nella devota città”
Ricacciata l’armata ottomana, i reggini godettero un mezzo secolo circa di pace e prosperità.
A sconvolgere, in una manciata di anni, questo stato di grazia intervennero due eventi di estrema gravità sociale e territoriale.
Il primo è stato caratterizzato dal letale morbo della peste, che già Reggio aveva sofferto in due altre circostanze: al ritorno dalla battaglia di Lepanto (1571), come si legge in diversi atti notarili e nei processi verbali del voto del cero; e nel 1576, allorché, infettata Messina da un carico di merci, trasportato su “un picciol legno armato” (Vitriolo), guidato da Michele Mangiante, fu importato - anche se subito circoscritta con tempestivo intervento degli ufficiali di pubblica igiene - dalla moglie del ciabattino Girolamo Spagnuolo, che “era colla famiglia di là venuto nei giorni sospetti” (Vitriolo); e dal “merciaiuolo chiamato Bifaro Cotogno”, che “ebbe l’agio di fare accatto di alcune mercanzie venute di soppiatto dall’infetto paese, e segnatamente dal punto della cittadella detto il braccio di s. Raniero. Ed ecco il quattro giugno del seguente anno si appalesa nella casa del Bifaro la peste colla solita enfiatura nell’inguine o sotto l’ascella” (Vitriolo), provocando, fino al celeste patrocino liberatorio della Vergine della Consolazione, come abbiamo già detto, circa 700 vittime.
Nel 1636, nuovamente la città dello stretto fu aggredita dalla sindrome della paura, i cui sintomi si rilevavano nelle notizie relative all’imperversare del male oscuro, con effetti devastanti, nel mezzogiorno d’Italia. Paura e notizie che, presto, la suggestione somatizzava fino al punto da far immaginare che anche nella nostra città vi fossero delle vittime. Per cui il popolo reggino accorse in massa davanti all’immagine della Madonna della Consolazione, sciogliendosi in accorate invocazioni di aiuto e protezione.
Nonostante la chiesa fosse più ampia di quella originale, la maggior parte dei convenuti rimase fuori, impossibilitata a potersi inebriare della dolcezza rassicurante dei tenerissimi volti della nostra Mamma e del bambino Gesù.
Probabilmente fu questa situazione di disagio, che la Vergine ha voluto volgere in carezza di consolazione, ad ispirare ai frati cappuccini ed ai numerosi pellegrini l’idea di portare la sacra Immagine in città, per confortare coloro che, per motivi di età e di salute, non si erano potuti recare al Santuario, e per averla un po’ con loro, nel cuore delle loro case.
Ecco come il De Lorenzo ci tramanda quel commovente giorno: “Si fa dunque universale convegno al sacro monte, donde tolto il venerato Quadro, muovono con ordinata processione inverso la città. Disceso il vallone di Caserta, traversano il sobborgo di S. Lucia, poi quello di S. Paolo e di porta Mesa, e toccando la vecchia cinta, passano l’uno e l’altro arco della vecchia cinta, mentre il suono festoso di tutti i sacri bronzi, e il grido e il pianto della moltitudine salutano questa prima entrata della sacra Immagine nella devota città”.
Ad accoglierla nella chiesa cattedrale, dove si è dato inizio alla solenne celebrazione Eucaristica, l’Arcivescovo e il Capitolo con il clero. Dopo la proclamazione della Parola di Dio, un predicatore tesseva una fervente orazione spirituale, esortando i cristiani alla sincera conversione del cuore, cercando consolazioni nella divina misericordia e nella potente intercessione della Vergine Maria.
Terminata la suggestiva liturgia, il Quadro è stato collocato nella cappella del Santissimo Sacramento, per la popolare venerazione. E, immediatamente, “la città - ci racconta ancora il De Lorenzo - pigliò aspetto di penitenza, movendo nelle differenti ore del giorno, da questa o da quella chiesa, ora una confraternita laicale, ora una comunità religiosa, ora il clero cittadino; i quali dopo un giro per la città, si fermavano in qualche piazza, dove predicavasi al popolo, e quindi facevasi capo al Duomo per pregare davanti alla sacra Immagine”.
Un pellegrinaggio di devozione mariana, questo, che la paura del contagio, fomentata dal quotidiano susseguirsi delle notizie nefaste dai paesi vicini, ha tenuto vivo e palpitante per circa due anni, ed esattamente fino al 1638, anno in cui è venuto a materializzarsi il secondo grave evento per i reggini, e non solo, come vedremo nel prossimo paragrafo.


Il riconoscimento ufficiale del Patrocinio della Madonna della Consolazione
Mentre i reggini erano tutti intenti a impetrare la grazia liberatrice dal morboso contagio del male oscuro, un altro evento, non meno devastante, è sopraggiunto, scuotendo paurosamente la vita di buona parte della Calabria, e, quindi della nostra città, trovandosi nello perimetro interessato: il terremoto del 27 marzo 1638.
Già altre volte, essendo una terra ad alto rischio sismico, la terra calabra aveva tremato, segnando ingenti rovine alle strutture con impressionanti perdite umane. Questa volta, più di cinquanta centri urbani e rurali sono stati distrutti, seppellendovi tantissime persone. Anche i danni alle cose sono stati notevolissimi.
La città dello stretto, invece, se l’è cavata solo con un grande spavento, tanto da far gridare al miracolo.
Rimasta indenne dal contagio del male oscuro e dall’evento sismico, i tre sindaci della città, a furor di popolo, riconoscendo, in questi tristi eventi, l’alto patrocinio della Madonna della Consolazione, hanno deliberato, con atti pubblici, datati rispettivamente 26 e 30 aprile 1638, di ufficializzare il voto solenne dell’offerta del cero e di farsi un pellegrinaggio al santuario nel giorno 26 aprile di ogni anno.
L’atto pubblico del 26 aprile, in cui veniva ufficializzato il voto del cero, pare sia andato smarrito. Si conserva, invece, quello del 30 aprile, anche se non agevolmente trascrivibile. Questo il testo del “motu proprio”, reso con atto pubblico per mano del “Regio Publico Notaro Salvadore Mentola”:
Die trigesima Aprilis sextae Indictionis 1638 Rhegij […]. Innanzi di noi […] personalmente costituiti li magnifici Giuseppe di Capoa, Agamennone Roccabuono e Giovanni Oliva Sindaci in lo presente anno di questa nobilissima e fedelissima Città di Reggio, intervenendo allo presente atto come Sindaci, et per nome et parte di tutta la Città in particolare, et in generale abitanti et commoranti in quella, di moto proprio, considerando et visto le presenti roine, et subitanee morti, successe nelle Terre circonvicine, tanto nella Provincia di Calabria Ultra, quanto di Calabria Citra; ed essendo stati per la Dio grazia liberi da tante disgrazie et calamità, sì per protezione della gloriosa Vergine Maria, Madre di Dio, come anche per la intercessione di tante preghiere de’ nostri religiosi abitanti in questa Città, et per le tante penitenze, che universalmente per la divina misericordia si son fatte, tanto da Nobili, quanto dal popolo, tanto da uomini, quanto da donne, tanto da grandi, quanto da piccoli: come timorosi di Dio, da parte di tutta la Città, acciò per l’avvenire fossimo liberi da così imminenti pericoli, facciamo voto e promettiamo alla gloriosa Vergine Maria della Consolazione che essendo consolati per l’avvenire, mercè la sua intercessione, di non aver ruina, danni et morti, ogni anno a 26 aprile in segno di gratitudine fare una solenne e formale processione alla gloriosa Vergine della Consolazione in segno di gratitudine; ricordando loro che nel tempo della peste, anco la nostra Città coll’intercessione di detta gran Signora della Consolazione ebbe la grazia, come è antica tradizione dei nostri antecessori. Et così declaramo et promettemo cum juramento tactis Scripturis, in manibus meis infrascripto Notario […].
Espletati gli adempimenti deliberativi, con i quali si riconosceva pubblicamente il patrocinio della Vergine della Consolazione, la sacra Effigie si è portata processionalmente, tra la commozione generale, al suo Santuario.


La peste del 1656 e l’istituzione della festa del 21 settembre
Una nuova ondata infetta, nell’anno 1656, si è scatenata ad opera di certi soldati, provenienti dalla Sardegna, ove il morbo della peste era già vivo, e sbarcati presso il porto di Napoli. Alle prime avvisaglie, vi fu un fuggi fuggi generale, cercando riparo nei luoghi ancora incontaminati.
Ma ormai era troppo tardi, perché molti di questi fuggitivi erano già intaccati dal male, trasmettendola ovunque si recavano, mentre la morte regnava sovrana. Annota, a proposito, il Vitriolo: “Sendo ormai incapaci i cimiteri delle chiese, le tombe de’ camposanti e le cave dei monti, bruciavansi i cadaveri o affondavansi in mare, ingojandone morte sino a diecimila al giorno”.
La panoramica nazionale presentava una mappa decisamente spettrale. Nella sola Roma, per esempio, si contavano oltre 22 mila vittime, dai 160 mila negli Stati Pontifici, nella città di Genova, in un solo mese, circa 70 mila e nella città di Napoli più di 285 mila. Cifre apocalittiche se rapportate al numero degli abitanti.
Di centro urbano e rurale in centro urbano e rurale, la peste giungeva fino al Villaggio di S. Caterina, non molto distante da Reggio.
Avvertito, ormai, alle porte il pericolo, il popolo reggino, memore delle antiche e recenti beneficienze godute, è accorsa prontamente al Santuario dei cappuccini, accompagnando il venerato Quadro in città e collocandolo nella cappella del Santissimo Sacramento. “Dì e notte – così il Vitriolo – quel tempio era ingombro di supplichevoli adoratori”.
Il De Lorenzo, attingendo alle sue Cronache e Documenti inediti ed alla Cronaca di Zappia-Catizzone, ci racconta, con suggestivi particolari, il rito della preghiera penitenziale: “Un giorno erano i gentiluomini della Carità, che venivano con quest’ordine dalla parrocchia di S. Giorgio al Duomo: un confratello a piè nudi portava la croce; seguivano a coppie tutt’i patrizii del sodalizio, scalzi ancor essi, in solo camice, senza il sarrocchino e portando cinte intorno al collo e ai lombi quelle rozze funi d’erba, che in Reggio sono dette libàni; il cappellano, anche scalzo e senza il colletto bianco e il mattino, portava come gli altri la fune, e in capo la corona di spine.
In quel giorno stesso formavano somigliante processione gli ecclesiastici ascritti all’oratorio della Misericordia.
In uno dei seguenti giorni venivano i Gesuiti del Collegio con tutti i loro studenti e insieme gli Ottimati dell’Annunziata. Alcuni sacerdoti recavano in ispalla la statua di S. Francesco Saverio, mentre i gentiluomini portavano il Crocefisso che oggi è nella sacrestia del Duomo, inalberato sopra una base velata a bruno. Giunti costoro al Duomo, predicava il P. Giovanni Fiore da Cutro, e l’Arcivescovo dava la benedizione.
Un altro giorno, in diverse ore, giungevano gli abitanti delle diverse parrocchie cittadine, avvicendandosi coi religiosi Agostiniani, Carmelitani, Osservanti, Conventuali, Cappuccini, de’ quali molti disciplinandosi a sangue. Poi veniva la volta delle parrocchie suburbane e di altre terre vicine; e un giorno vennero anche quei di Gallico, donde portaronsi reliquie e statue di Santi. All’arrivo del quale ultimo pellegrinaggio, predicò in Duomo un missionario straniero.
Nel pomeriggio del sabato 8 luglio il Capitolo e il clero del Duomo, la Collegiata della Cattolica e la municipale rappresentanza rendevansi insieme alle pubbliche supplicazioni in questa forma. Dal Protopapa (arciprete) della Cattolica veniva portata la croce di essa Collegiata; sulla croce che precedeva il clero del Duomo era un cartella che diceva: Parce, Domine, parce populo tuo! Gli ecclesiastici erano scalzi e con gli altri segni di penitenza. In fondo della processione veniva una statua della Madonna della Pietà, con angeli piangenti ai lati, che avean deposta quel dì la spada e la gorgiera. Seguiva in silenzio mestissimo tutto il patriziato e il rimanente popolo”.
Gli abitanti di Reggio e dei paesi vicini hanno presentato le loro accorate suppliche al Signore, davanti all’Immagine della Consolazione, fino a quando il flagello della peste ha cessato, senza che li lambisse. Non solo, ma si è verificato anche il miracolo della guarigioni per coloro che, affetti dal letale morbo, si erano, di nascosto, introdotti nel Duomo a pregare.
Era, intanto, maturato il tempo per il rinnovo dei governanti della città e, il 24 giugno 1657, la campana della Casa comunale ha convocato tutti i cittadini a generale convegno. Eletti il governatore della città, Tommaso Morales y Bolestiero, e i sindaci, Stefano Fornari, Giuseppe Trapani e Giuseppe Milito - riconosciuto “il sovraumano favore, e grati alla celeste Benefattrice” (Vitriolo) - si sono riuniti in pubblico parlamento e, all’unanimità, hanno deliberato che la festa del Santuario del 21 novembre si facesse, ogni anno, a totale carico del Comune; che, nello stesso giorno, si offrisse un grande cero all’altare di nostra Signora; e che si perpetuassero, su lastra marmorea, posta sulla parete della Casa di città, l’iscrizione del “voto presente insieme con le precedenti grazie pubbliche della Protettrice. Questo atto veniva accettato da tutti gli elettori reggini, distinti ne’ quattro ceti, secondo il costume de’ nostri in quel tempo, figurando così come accettanti cento ed otto della classe nobile, tra cui il Principe di Scilla e quel di Cosoleto e il Duca di Bagnara; centocinquantadue del medio ceto o degli onorati, come allora si dicevano; duecentocinquantadue artieri, centosettantasette massari o agricoltori di proprio conto” (De Lorenzo).
Anche la processione annuale del 26 aprile, stabilita nel 1638, con “motu proprio”, dalle autorità comunali, è stata trasferita al 21 novembre.

Il ritorno del venerato Quadro all’Eremo
Ed ecco, finalmente, spuntare l’alba del 16 novembre 1658, giorno in cui si era stabilito di riaccompagnare, dopo 24 mesi di permanenza nella chiesa cattedrale, il venerato Quadro alla sua sede naturale, per celebrarvi la festa, durante la quale chiunque visitava la chiesa della Madonna della Consolazione alle solite condizioni, poteva lucrare, su concessione pontificia, l’indulgenza plenaria.
Gustiamo anche noi un saggio della memoria storica di questo singolare evento di grazia, che l’abile penna poetica dell’allora guardiano del convento cappuccino, padre Ignazio Cumbo, ha così tramandato ai posteri:

“Esce dalla città fra cento schiere
Su bara trionfal la Vergin Madre,
Tuonan squille e bombarde, e le bandiere
Fan de’ venti al soffiar ruote leggiadre;
Di timpani, e di trombe le guerriere
Risuonan d’armerie le sacre squadre.
Gli encomi celebrando de la Dea,
che preservata da quel male l’avea”.


Altrettanto suggestiva e stilisticamente assai pregiata la narrazione stilata dal Vitriolo: “Ondeggiavan gli adoratori le strade, e serici drappi pendeano dai balconi dei palagi e dai muri esterni delle case. Sorgean pompose allusive macchine ed archi festevoli e frondeggianti. Scesero in folla ed in abito di festa villereccia gli allegri abitatori dei vicini sobborghi, e le gaje contadinelle cantavano per le strade le laudi di Maria al suono di giulive sampogne. Schieravansi le armate milizie, mentre fanciulleschi drappelli aspergeano di fiori le vie, per le quali passar dovea la gran Regina degli angioli. Non han bisogno i celesti dei voti de’ miseri mortali, ma piacquero al Re dell’universo le primizie del campo offerte dall’innocente Abate, e grato gli fu nell’affetto dell’animo l’obolo della vedova. Vidersi poi al suon di timpani e di altri musici strumenti sventolare i vessilli de le pie congreghe, quelle de’ solitari e degli altri ordini religiosi. Seguiano le lunghe file dei leviti dalla bianca cotta e dalle seriche cappe. Ultimo e solo procedeva in dorato ammanto il Pontefice della festa, lo spagnuolo Gasparo Creales, mentre modesti cherici agitavano ai suoi fianchi le urne fumiganti di eletti odori. Vollero i patrizi gravarsi del nobil peso della sacra imagine, e l’enorme cero sorgea ancora sugli omeri dei magnati. Ma quando i giocondi clamori dei sacri bronzi e lo sparo delle bombarde annunziarono, che la Imperatrice dell’universo varcato avea la soglia del tempio,

All’apparir dell’adorata Imago
Piombare a un punto genuflessa al suolo
Vedi l’immensa turba de’ fedeli,
Che le piangenti luci in lei vibrando,
Maria, grida, Maria, l’eco ripete
Mille volte Maria dal pian, dal mondo.


I magistrati della città, i duci delle armi seguivano il religioso corteggio, e dietro traevansi pari a torrente immensa calca di popolo fervente di religioso tumulto. Simili feste parlano al cuore, e per lo più inteneriscono, quando son fatte in rendimento di pubbliche grazie. Quanto son esse diverse dal tripudio dei saturnali e dall’ebbrezza delle bacanti! Trascorse la Diva le pubbliche strade tra i fiori de’ fanciulli e le lagrime dei vecchi vicini alla tomba, tra gli omaggi dei grandi, tra i cantici e le preghiere di tutti. Giunse dipoi ai pomeri, e lasciata la diletta città, inoltrossi la pompa religiosa per l’erto torrente di Caserta. Progrediva la Dispensiera delle grazie per l’arenoso calle tra i levitici canti e lo sparo d’infiniti moschetti, e dir potea coll’epico massimo:

Colà s’avvia l’esercito canoro
E ne suonan le valli ime e profonde,
E gli alti colli e le spelonche loro,
E da ben mille parti Eco risponde,
E quasi par, che boschereccio coro
Tra quegli antri si celi e in quelle fronde,
Sì chiaramente replicar s’udìa
Or di Cristo il gran nome, or di Maria.


Pervenne infine la Vergine del Consuolo all’ermo di lei sacello, e fatta la consegna del cero, si sciolse il voto. Fecero di poi ritorno le divote turbe dal cuor commosso, e le luci molli di pianto, e nella città proseguì la sera il pubblico gaudio fra le splendide luminarie e gli svariati fuochi dell’arte. Fu insomma festa di riconoscenza, un’esultanza di gratitudine”.
Traspare da queste testimonianze una mirabile ricchezza di fede a onore e vanto di quel popolo, che custodiva come un patrimonio inestimabile, ereditato da generazione in generazione con saggia e docile edificazione, a dimostrazione dello straordinario amore si nutriva verso la Regina delle Consolazioni-
I grandi ceri, offerti puntualmente negli anni, venivano appesi al cornicione della stessa chiesa, come silenziosi ed efficaci testimoni dei voti soddisfatti dalla pubblica amministrazione, mentre quelli più piccoli, di varia dimensione, presentati dai devoti e pellegrini, venivano sistemati lungo le pareti del presbiterio.
A questi ultimi si ricorreva per i bisogni del culto e dei conventi della provincia cappuccina. Accanto facevano bella mostra altri segni votivi, che man mano trascorreva il tempo aumentavano di numero. Oltre a quelli modellati in cera, si annoveravano trecce di capelli, abiti, pugnali, moschetti, stampelle, bastoni, abitini e tanti altri come segni testimoniali di grazie e miracoli ottenuti per l’intercessione della Madonna della Consolazione.


Una famelica carestia
Il problema della fame è stato sempre a livelli di guardia soprattutto per le famiglie più povere, anche quando i viveri non scarseggiavano sulle bancarelle o nei negozi.
Esse, segnate dalla povertà e dalla disoccupazione, facevano fatica a procurarsi anche un solo pasto quotidiano, nonostante la disponibilità a qualsiasi lavoro. E non era raro che, trovando qualche opportunità occupazionale, venissero sfruttate fino all’umiliante ricatto: o una misera paga in natura alimentare, appena sufficiente per non morire di fame, oppure niente lavoro.
E così il povero diventava sempre più povero, mentre il ricco impinguava costantemente le sue ricchezze.
D’altronde la coltivazione del frumento, nel territorio reggino, non si è rivelata mai sufficiente per il fabbisogno popolare, per cui bisognava integrarlo, non senza rischi, ricorrendo al mercato estero. Infatti, le navi, che trasportavano frumento ed affini, non di rado venivano intercettate e saccheggiate dai pirati, che spadroneggiavano nelle acque mediterranee, con conseguenze facilmente intuibili per la nostra città.
Era questo lo scenario che si presentava all’alba del 1672: anno in cui si è sviluppata una siccità senza precedenti, aprendo il sipario ad una famelica carestia.
Negli anni immediatamente trascorsi l’arsura dei terreni, la scarsità dei prodotti dei paesi fornitori nostrani e gli alternanti esigui rifornimenti esteri, avevano più volte messo in seria crisi la popolazione reggina.
Lo stesso scambio in natura, cui si ricorreva in queste situazioni emergenziali, era diventato ormai un lusso non solo tra i commercianti ma anche i medesimi agricoltori. Perfino gli impegni oggettuali, più o meno preziosi, erano andati via via esaurendosi. Come pure l’offerta di servitù alle famiglie più agiate da parte delle famiglie più povere, in cambio di qualche alimento. Per cui la fame si tagliava, come si soleva dire, con il coltello. S’immagini come si tagliava quando, nel 1672, la carestia ha stretto d’assedio la nostra città, le cui condizioni esistenziali diventavano, ora dopo ora, sempre più drammatiche, tanto da essere paragonate a quelle pestifere. “Basta dire – scrive Licari – che i morti per inedia furono in gran numero in Reggio che dietro il castello si dovettero scavare delle grandi fosse per riunirvi, come in tempo di peste, i cadaveri.
Madri che piangevano per le vie perché non avevano più nell’esausto seno una stilla di latte da dare ai piccoli bambini morenti; poveri vecchi che si trascinavano di porta in porta in cerca di qualche tozzo di pane, negato da tutti; fanciulli cadenti per via cogli occhi arrossati dal pianto e colle guance smunte, che non sapevano ripetere con un fil di voce che una sola parola: pane, pane; famiglie intere di contadini, riarsi, consunti dalla fame, che affluivano dalle campagne in città sperando di trovare qualche cosa per isfamarsi. Era insomma una città in lutto la mia Reggio”.
Nella vicina Messina la sorte non era migliore. Ci si cibava financo di carne equina e canina. La farina di frumento si mischiava con quella del lupino amaro per aumentare la massa panifica. Per provvedersi del necessario, non hanno esitato le autorità locali ad armare con moschetti e cannone una galera, nomata Maiorchino, col preciso intento di intercettare, nelle acque dello stretto, qualsiasi bastimento carico di viveri, costringendolo ad attraccare al porto messinese. Or avvenne che veleggiando, un giorno, un bastimento carico di grano alla volta di Reggio, venne rilevato dal Maiorchino, il quale prontamente lo raggiunse e, senza tanti preamboli, lo obbligò a precederlo nel porto. “Non volle, a dir vero, il senato di quell’amica città – puntualizza il Vitriolo - si facesse lo sbarco del frumento, anzi inviò gentilmente una lettera ai sindaci reggini, facendone le scuse: se non che pregavali volessero contentarsi de la metà, e dividere il pane coll’afflitta sorella. O che non volessero que’ di Reggio esser coi vicini disamorevoli, o fosse giuocoforza il cedere alla legge del più forte, perché il fatto era fatto, né forse voleasi o poteasi disfare, vi condiscesero”.
La quantità ottenuta non è bastata a tamponare neppure il fabbisogno minimo richiesto dall’emergenza generale. Le riserve erano quasi esaurite. Anche le persone più facoltose stentavano a sbarcare il lunario. I costi alimentari avevano toccato livelli proibitivi per tutti. Non restava altra via d’uscita che il rifornimento dei bastimenti, che le autorità governative non tralasciavano nulla d’intentabile per assicurarselo. E dato che le vedette non vedevano all’orizzonte alcun bastimento e le riserve di grano sarebbero bastate solo per altri tre giorni, i sindaci, Giovanni Melissari, Francescantonio Plutino e Giulio Cesare Dattola, hanno ritenuto doveroso avvertire, con apposito banditore, la cittadinanza.
Appresa la notizia, unanime si è levato il grido fra i reggini: “Venga a noi Maria, venga la Madre delle Consolazioni”. Riviviamo quel commovente momento di fede e devozione, nella dilettevole immediatezza dell’ispirata narrazione del Vitriolo: “Primi i sindaci a piè scalzo seguiti da numeroso pubblico mossero al chiostro dei frati, e tra i sospiri ed il pianto trasportarono la diletta effigie nella cattedrale de la città. Ivi sacro oratore accendeva il popolo alla confidenza nell’alta Benefattrice, ed erasi già al canto delle litanie, quando, ho inaspetato favore! Nella chiesa stessa fu il civico magistrato fatto consapevole, che spinti da contrari venti e da gagliarda rema tre grossi navigli carichi di frumento e di legumi, avean dato fondo nella baja detta de’ Giunghi. Qui non è a dire, se i canti penitenziali convertiti si fossero in frequenti alleluia. Tutti volarono al lido, per accettarsi de la grazia, e crebbe lo stupore, lorché s’intese che i deputati all’annona in quelle strettezze comperati aveano i cereali a prezzi anziché alti, moderatissimi. Per trivi e per le case alzavasi il grido di giubilo: viva la Vergine del Consuolo! Si riempiono in poch’istanti i pubblici granai, turri comperano il frumento, che dicean de la Madonna, e provvedutisi a dovizia i cittadini, mossi da fratellevole carità ne lo partiscono con i vicini paesi. Inviarono i sindaci due feluche con frumento nelle opposte parti di Calabria, una a la Roccella, e l’altra ai lidi di Tropea. Reggio a que’ dì carestosi parea si fosse l’emporio dell’abbondanza”.
Ci piace sottolineare, per la gloria di Dio e ad onore e vanto del popolo reggino, il gesto di bontà e di condivisione con chi era annaspava nella fame, come abbiamo detto sopra. D’altra parte, come si poteva rimanere insensibili di fronte al bisogno dei fratelli, ora che la Mamma celeste aveva provveduto e provveduto in abbondanza?
L’Immagine della Madonna è rimasta per sei mesi in città. Quindi è stata riportata nel suo Santuario al canto laudativo del popolo, mentre le campagne presentavano, ubertose, la varietà colorata delle messi, quasi come un omaggio floreale al suo passaggio.

 
Testi realizzati da Padre Giuseppe Sinopoli, tutti i diritti sono riservati, è vietata la copia e la diffusione, senza l’autorizzazione scritta da parte dell’autore.



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